In questi primi tre mesi dell’anno ho visto andar via tante persone nel mio paese e non solo. Questi eventi mi hanno colpito in particolar modo. Sebbene mia madre mi ripeta che questa è la vita e che adesso mi sembrano di più solo perchè ci faccio caso, non posso che interrogarmi su questa dimensione oscura e intrinsecamente legata all’esistenza umana.
Una dimensione oscura, dolorosa sulla quale si inerpicano paure primordiali, convinzioni e convenzioni che dettano i tempi e l’elaborazione del dolore.
La morte è la fine di un ciclo. Che tocchi ai giovani o agli anziani, lei implacabile compie il suo dovere. In base alla nostra cultura di appartenenza, abbiamo tempi di elaborazione socialmente consentiti: sei mesi perchè non si inizi a parlare di depressione o simili, 8 giorni per la cultura andina e via dicendo. C’è chi si veste di bianco, colore che rinfrange. Chi di nero, colore che assorbe. Fino ad una quaratina di anni fa ma ancora oggi in alcune parti del mondo, si convocavano “e ciangiuienti”: le donne che dovevano piangere insieme ai congiunti del defunto. Si pensa che questo rito del pianto servisse anticamente a far comprendere all’anima di essere morta. C’è chi lascia detto che vuole essere cremato (il fuoco è un elemento di purificazione) e sparso da qualche parte o messo in un’urna. C’è chi vuole essere imbalsamato e chi sepolto sotto terra. C’è chi vuole semplicemente essere messo in loculo.
La morte modifica i legami con l’esistenza terrena. Ci sono persone che continuano a sentire la presenza del loro caro a distanza di tempo e in svariati modi. E chi invece avverte sin da subito la recisione del legame. La soggettività la fa da padrona, sempre.
Sta di fatto che quando bussa alla porta determina un cambiamento rilevante nella vita delle persone. Dopo un periodo di profondo dolore, si ricomincia a vivere costruendo una nuova quotidianità. Ed allora c’è chi impara a gestire il dolore e a costruire e chi si inaridisce. Una questione di scelta.
La morte insegna come tutte le altre esperienze e siamo sempre noi a dare ad essa un significato piuttosto che un altro.
Vorrei per questo dedicarmi alla morte di un seme per spostare l’attenzione su quanto di importante può creare questa dimensione se abbiamo il coraggio arrivati ad un certo punto di andare oltre la ferita.
Un albero ha bisogno che il seme muoia per iniziare a vivere. è molto frequente infatti che subito dopo una morte dolorosissima, nasca un bambino, arrivi un amore, si creino condizioni favorevoli dal punto di vista professionale. Ciò chiaramente non significa che per vivere un beneficio debba morire qualcuno, ci mancherebbe. Ma attenzione a cosa accade intorno a questa dimensione.
Allora, mi ritorna alla mente quando a scuola in occasione della Pasqua la maestra ci faceva piantare il grano. Si coprivano i semi con i batuffoli di cotone e si metteva al buio. Qualche settimana dopo, il giovedì santo, si portava il grano fiorito in chiesa per riprenderselo poi la domenica.
Questi germogli fatti crescere in un luogo buio, la morte, maturano nel periodo della Settimana Santa e simboleggiano quindi la Resurrezione.
Un rito che cambia di cultura in cultura ma mantiene intatto il suo significato primordiale: dal buio alla luce.
Ecco quindi che far vivere questo rito è importante per comprendere cosa accade e nel momento dell’addio vivere il dolore e poi continuare il percorso in consapevolezza.
Il mio pensiero quindi va ai tanti trapassi di questo ultimo periodo e nello stesso tempo al mio che un giorno verrà. In che modo accettarlo? La ricapitolazione è un ottimo modo per rivivere i momenti più importanti della mia vita fino ad adesso e piantare in ognuno di essi un fiore il cui profumo rende più forte il mio esistere.
Bellissimo pensiero la rinascita,tornare dopo la morte trasformato in un essere di luce….
Ti ringrazio Graciela: affrontare l’argomento è importante per comprenderlo in profondità.